Rivolta del sette e mezzo

La rivolta del sette e mezzo ebbe luogo a Palermo e provincia dal 16 al 22 settembre 1866.

«I funzionari, per lo più settentrionali… consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari… Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo d’antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l’introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocava l’impossibile: l’alleanza tattica dei gruppi filoborbonici con i circoli del radicalismo democratico, cioè l’ala oltranzista del vecchio partito filo-garibaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti, componenti politiche quest’ultime perennemente presenti nella storia dell’isola.»
(Paolo Alatri)

LE CAUSE

La sollevazione popolare fu causata da più fattori. Innanzitutto la popolazione era stremata dalle ingenti tasse imposte dal nuovo governo, servite per mettere in pari il bilancio dopo le pesanti spese di guerra dovute al risorgimento. Inoltre i funzionari sabaudi (prevalentemente originari del nord italia) , come descritto ottimamente dallo storico Paolo Alatri, consideravano la popolazione locale alla stregua di barbari o semibarbari, proprio come facevano i belgi in Congo e gli inglesi in India, l’unica differenza con quest’ultimi è che la Sicilia, con il resto del meridione, non erano una colonia ma parte integrante di quell’Italia tanto voluta da Garibaldi.

LE ALLEANZE TRA LA POPOLAZIONE INSORTA

La rivolta vide l’alleanza tra i filoborbonici, molto presenti in Sicilia, con l’ala più estrema e repubblicana degli ex garibaldini, oltre che gli autonomisti ed indipendentisti, da sempre presenti nell’isola.

Palazzi di Palermo distrutti dal bombardamento del 1866

I FATTI

All’alba del 16 settembre Palermo venne invasa da numerose bande i cui capi furono: Salvatore Nobile compagno di Giovanni Corrao (ex camicia rossa ucciso dalla mafia) e Salvatore Miceli, comandante di una banda che aveva partecipato ai moti del 1848 e del 1860. In 4000 assalirono dapprima la prefettura e poi la questura uccidendo l’ispettore generale del corpo di guardie di pubblica sicurezza (gli antenati dell’odierna polizia). La città venne presa dai rivoltosi e la ribellione scoppiò anche nei paesi limitrofi. In totale il numero degli insorti raggiunse circa quarantamila unità e questi crearono un comitato rivoluzionario a cui parteciparono esponenti di vari ceti sociali (nobili, popolani, ex militari borbonici, ex garibaldini) e che serviva ad organizzare un’adeguata gestione della rivolta e degli stessi rivoltosi. La reazione del governo “italiano” non si fece attendere, fu addirittura dichiarato lo stato d’assedio, come accaduto anche in altre zone del mezzogiorno, oltre all’invio di navi da guerra e di circa 40.000 uomini comandati dal generale Raffaele Cadorna (padre del più famoso Luigi Cadorna, ritenuto responsabile della “disfatta di Caporetto”). Un imponente bombardamento via mare si abbatté sulla città creando ingenti danni agli edifici e centinaia di morti tra la popolazione. Dopo il bombardamento le truppe entrarono in città conquistandola. A testimonianza della successiva repressione vi è una lettera scritta dall’ufficiale dei granatieri Antonio Cattaneo, riportata dallo storico Francesco Brancato ( tra gli esponenti di rilievo del Comitato di Palermo dell’Istituto per la Storia del Risorgimento) che dice: «Qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti ci capitavano; anzi, il giorno 23, condotti fuori porta circa 80 arrestati con le armi alle mani il giorno prima, si posero in un fosso e ci si fece tanto fuoco addosso finché bastò per ucciderli tutti. In una chiesa, un ufficiale visto due frati che suonavano a stormo li fucilò con le corde in mano…».

CONCLUSIONI

Questa ribellione, unita a quelle accadute nel continente, ci fanno capire come l’unità d’Italia e maggiormente la costituzione di uno stato unitario sotto la reggenza dei Savoia sia stata vista negativamente dalla maggior parte dei meridionali. La reazione attuata dal neonato stato italiano verso i rivoltosi, con la conseguente proclamazione dello stato d’assedio è il simbolo del trattamento riservato a questi territori, possiamo considerare il tutto come una sorta di occupazione, almeno nei primi anni. Un dato di fatto, che porta a riflettere, è proprio il bombardamento della città, quest’ultimo, quasi sconosciuto, non ha avuto lo stesso scalpore del bombardamento di Messina del 1848 che per Ferdinando II è stato causa di accuse diffamatorie e nomignoli vari. Infatti la figura dell’allora re d’Italia Vittorio Emanuele II non ne ha risentito affatto di quest’evento e dei molti altri avvenuti nel resto del meridione. In conclusione potremmo dire che le continue diffamazioni verso il penultimo re di Napoli siano servite proprio ad offuscare la sua immagine sia in Italia ma soprattutto all’estero, con una campagna denigratoria volta proprio a distruggere tutto ciò che questi aveva fatto per rendere economicamente indipendente la sua nazione dalle potenze dell’epoca.